martedì 6 luglio 2010

La Sindone di Torino, alla sua comparsa, fu riconosciuta falsa dalle autorità ecclesiastiche

Articolo numero 2 di una serie.

Malgrado i sindonologi abbiano tentato di associare la Sindone di Torino a epoche anteriori al XIV secolo, fallendo malamente, il telo sindonico torinese fa la sua comparsa sulla ribalta della Storia solo negli anni 1350.

In un anno non meglio precisato (la data esatta oscilla tra il 1353 e il 1357), il signore Goffredo di Charny dona ai canonici della chiesa di Lirey (in Francia, nella regione della Sciampagna-Ardenna) la Sindone di Torino, senza spiegare come ne sia entrato in possesso, e fonda una collegiata per custodirla.

I canonici di Lirey favoriscono la nascita di un afflusso di pellegrini presso la presunta reliquia, ma Enrico di Poitiers, vescovo di Turey, proibisce il culto dell'immagine, che scompare di fatto per diversi anni.

Nel 1389, Giovanna di Vergy, vedova di Goffredo, si sposa con Aimone di Ginevra, zio del papa (oggi considerato antipapa) Clemente VII. Assieme al figlio Goffredo II, Giovanna decide di esporre nuovamente la reliquia, confidando nella parentela del marito per scavalcare Pietro d'Arcis, vescovo di Turey, e ottenere l'autorizzazione direttamente dal Papa. L'autorizzazione è concessa, e l'esposizione celebrata con il conio di speciali medaglioni (uno dei quali conservato al Museo Cluny di Parigi).

Pietro d'Arcis si oppone e, dopo non aver avuto nessuna risposta da re Carlo II, scrive un memorandum a papa Clemente, in cui fa riferimento all'indagine del suo predecessore Enrico e rivela che, secondo la confessione di colui che aveva fabbricato il telo, il decano della collegiata di Lirey aveva commissionato un telo dipinto abilmente, ottenuto tramite una tecnica particolare, mosso da fini venali.

Il 23 luglio del 1389, Clemente VII interviene con una lettera destinata a Goffredo II, autorizzando l'esposizione della presunta reliquia a patto che sia chiaramente detto che non si tratta del sudario di Gesù, ma di un dipinto («pictura seu tabula»). Questa disposizione è confermata da una bolla datata 6 gennaio 1390, ma emendata da una bolla successiva dello stesso anno, datata 30 maggio: in questa seconda bolla Clemente accoglie la posizione degli Charny, e dispone che la presunta reliquia sia pubblicamente dichiarata di fattura non umana («figura seu rapresentatio») e concede indulgenze ai pellegrini. A Pietro d'Arcis è fatto divieto di contestare ulteriormente l'autenticità della sindone, pena la scomunica.

I sindonologi hanno tentato invano di contestare invano l'autenticità dei manoscritti contenenti due copie della memoria di Pietro d'Arcy; successivamente sono passati a mettere in dubbio i motivi che mossero d'Arcy, affermando che fosse invidioso del flusso di denaro che finiva nelle casse della collegiata di Lirey invece che in quelle della cattedrale. Ma come dice Nickell,
Se le affermazioni di d'Arcy riguardo alla confessione del falsario fossero state false, i custodi della sindone avrebbero potuto contestarle, mentre essi mantennero quello che sembra un silenzio colpevole. Si ricordi che d'Arcy si era detto «disposto a fornire tutte le informazioni sufficienti a rimuovere ogni dubbio concernente i fatti dichiarati». Così l'affermazione del vescovo resta valida. Esiste ancora il rapporto del balivo di Troyes, datato 1389, che afferma che la sindone era un dipinto. E papa Clemente giunse alla conclusione che si trattasse di un dipinto o di una raffigurazione.
Poi ragioni terrene, molto terrene, portarono la Chiesa a sostenere tacitamente ma attivamente il culto di questa reliquia. Ma questa è un'altra storia: quando comparve, la Sindone di Torino fu considerata un falso dalle autorità religiose.

Fonti: Vittorio Pesce Delfino, E l'uomo creò la Sindone, Edizioni Dedalo, 2000, ISBN 8822062337, pp. 204-205; Richard B. Sorensen, «Summary of Challenges to the Autenticity of the Shroud of Turin», 2007; Joe Nickell, Relics of the Christ, University Press of Kentucky, 2007, ISBN 0813124255, pp. 125-129.

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