lunedì 7 febbraio 2011

«Non c'è crimine per coloro che hanno Cristo»

Shenoute era un monaco cristiano egiziano, vissuto all'inizio del V secolo, famoso per aver fondato un monastero e per la sua lotta contro il paganesimo. È uno dei più importanti santi della Chiesa copta. Tra i suoi avversari vi fu il ricco Gesio:
Shenoute e i suoi seguaci presero la legge nelle loro mani, saccheggiarono la casa del pagano e distrussero i suoi idoli. In risposta all'accusa di lesteia — banditismo, crimine, violenza illegale —avanzatagli contro dal magnate, Shenoute proclamò che «non c'è crimine per coloro che hanno Cristo». Questa affermazione esprime chiaramente un paradigma di estremismo religioso, una fede nel fatto che il giusto zelo per Dio trascenda considerazioni sulla legge e l'ordine terreni.
Il brano precedente è estratto dal libro di Michael Gaddis sulla violenza religiosa nell'Impero romano cristiano, intitolato opportunamente There Is No Crime for Those Who Have Christ - Religious Violence in the Christian Roman Empire (University of California Press, 2005, ISBN 0-520-24104-5).



Gaddis iniziò a studiare il fenomeno della violenza religiosa nella tarda antichità per comprendere i motivi che spingevano dei monaci zelanti ad assaltare e distruggere i templi pagani, accettando volentieri l'eventualità della morte a seguito delle loro azioni. La ricerca è poi passata dal martirio alle violente dispute settarie tra cristiani, e dall'enorme mole degli episodi di violenza religiosa cristiana è emerso un filo comune, una chiave di lettura:
Ho trovato nelle ideologie del martirio e della resistenza una continuità tra il subire la violenza e l'azione violente, che rende conto del comportamento degli zelanti non solo nelle loro violenze contro i non-cristiani ma anche nei conflitti settari tra cristiani, e nel loro mescolare l'ideologia del martirio con lo zelo ascetico ho iniziato a notare elementi comuni che delineavano un paradigma di estremismo religioso, una giustificazione dell'atto zelante che mette in pratica la rabbia di Dio contro i nemici della fede.
L'autore, però, non cade nella trappola di esaminare solo gli atti degli estremisti, che per la loro stessa natura ottengono maggior rilievo rispetto alle posizioni della maggioranza moderata; i risultati ai quali giunge non sono però molto differenti:
Imperatori, magistrati, vescovi di spicco, sebbene parlino e agiscano con toni maggiormente moderati, istigarono e spesso ordinarono un'ancor maggiore quantità di potere coercitivo rispetto agli zelanti, e giustificarono la loro repressione dei dissidenti attraverso una retorica di disciplina gerarchica e di preoccupazione compassionevole e paternalistica.

Il libro mi pare interessante anche per chi non è appassionato di storia antica. Come fa notare Gaddis, la violenza religiosa, che a lungo abbiamo ritenuto appartenere al passato, è salita sul palcoscenico del XXI secolo con preponderanza, pretendendo la nostra attenzione.

Sebbene le cause delle violenze del IV-VI secolo siano radicalmente differenti da quelle che agitano i fondamentalisti moderni, le violenze di oggi e quelle di allora hanno una radice comune:
Dietro tutti questi particolari ciò che vediamo — nel IV come nel XXI secolo — sono attori umani che debbono giustificare le proprie azioni sia verso gli altri che verso sé stessi, e le cui strategie di razionalizzazione e di confronto assomigliano in maniera sorprendente in contesti culturali e storici drammaticamente differenti.

La mia riflessione finale è che sebbene cambino le ragioni per compiere violenze (e spesso cambino anche le religioni), le violenze restano e restano anche le giustificazioni che i violenti danno a sé stessi per razionalizzare gli atti altrimenti immorali che compiono; è necessario togliere ai violenti le scuse per compiere atti violenti, e tra queste la pretesa di agire per conto di Dio è la più forte e la più pericolosa.

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